Cosmografia della pandemia al tempo del coronavirus

Novello Castorp (1) in visita al sanatorio di Berghof, mi trovo chiuso nella mia stanza, isolato dal resto del mondo. Ma il mio è un isolamento diverso interiore. Non di uomo malato fisicamente.

Non ho mai avuto cosi tanto tempo a disposizione nella mia vita. Ed è proprio per questo che il mio primo pensiero va al tempo, al concetto del tempo alla sua realtà e alla sua irrealtà.

Come Hans Castorp, distinto e raffinato giovane, proiettato verso una brillante carriera, mi ritrovo proiettato mio malgrado, anche come medico ad affrontare una silenziosa metamorfosi attraverso un percorso di isolamento prima fisico e poi interiore.

Il cambio di scenari, da spazi aperti a spazi chiusi, spazi domestici, familiari, scandiscono il cambiamento interiore, si contrappongono, per una sorta di alchimia, alla contemporanea dilatazione del tempo e alla propria affermazione, in competizione per il potere sullo spazio.

Come per Hans il tempo ora non segue più i ritmi frenetici della vita condotta finora, ma i ritmi ancestrali della vita dettati dai bisogni primordiali del nostro corpo: mangiare, dormire. Ed allora in questo tempo senza tempo ritrovo la possibilità di riflettere sui grandi temi della vita. Sul concetto intrinseco di vita, su questa nuova malattia, sulla morte che ne scaturisce. Vita che non è solo funzione corporale, o espressione della coscienza, ma nell’insieme di entrambe unita all’anima. Vita come corpo, corpo come temporalità, corpo come soggetto all’invecchiamento, quindi alla morte. Assistiamo al rincorrersi della vita e della morte.

Dobbiamo ora rivedere il concetto di vita ed esistenza alla luce di questa pandemia che dia in qualche modo ragione e significato all’esistenza dell’uomo di oggi nel mondo. E’ l’evidenziarsi della crisi che, fino a poco tempo fa latente, la pandemia ha slatentizzato e ha relegato e circoscritto negli spazi profondi del nostro Io. Crisi intesa come incertezze di valori etici e politici, ma anche nel senso proprio del termine: dal greco κρίσις «scelta, decisione, fase decisiva di una malattia».   Il coronavirus ha reso manifesta la nostra fragilità umana, ci richiama a quella nèkyia rito per gli antichi Greci, con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio o più modernamente all’insondabile giustizia divina. Il fato era il regolatore e l’artefice del disordine del cosmo, noi potevamo sperare nella misericordia di un Dio buono. Poi il disordine l’abbiamo attribuito ai nostri peccati iniziando a riconoscere nell’uomo la causa prima ma l’origine del male, come punizione ancora divina. Oggi ci siamo resi conto che la dimensione è orizzontale. Non c’è una giustizia che viene dall’alto, una provvidenza che ci sostiene, un Dio che ci punisce. Ora è l’uomo al centro. Tutto torna all’uomo, causa ed effetto, colpa e determinazione, è lui a scoccare il dardo e spargere il germe della pandemia. E’ il tornare su se stesso, la realizzazione della antropomorfizzazione. E’ l’uomo il responsabile di questa moderna pestilenza contribuendo sul piano ontologico a confondere ciò che è animale con ciò che è umano. Per noi come per Castorp la malattia travalica i confini della medicina per diventare malattia della coscienza dell’epoca. Il sanatorio per lui e le restrizioni nelle nostre case per noi sono l’equivalente della società e della vita dove il concetto del tempo assurge a lusso e la malattia diviene metafora di una incipiente malattia della società.

(1) T. Mann. “La montagna incantata”

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